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I Pumas argentini nipotini del "Che"
Sono guerrieri, nomadi, cattivi ed estremamente orgogliosi.
Non accettano compromessi neppure con la loro Federazione
12/09/2007

Il rugby ben giocato è altamente spettacolare, anche per chi non ne conosce le regole. Io stesso ho incontrato della gente che aveva scoperto questo sport da un giorno e già ne era entusiasta». Firmato: Ernesto «Che» Guevara. Proprio lui, il comandante, la querida presencia. L'icona, il rivoluzionario. Sofferente d'asma eppure tre-quarti capace di volate travolgenti, di placcaggi astrusi. Tecnicamente discutibili ma efficaci e generosi. Come tutta la sua vita, campagne militari comprese.

Fuser lo chiamavano, crasi di «Furibondo Serna», dal secondo nome di famiglia di Ernesto, quando giocava nel San Isidro di Buenos Aires - il prestigioso club da cui proviene anche Marcelo Loffreda, l'attuale allenatore della nazionale argentina - e più tardi nell'Atalaya. Placcò senza risparmiarsi fino all'alba degli anni '50, poi l'asma lo bloccò e si inventò editore, con lo pseudonimo di Chang-Cho, di una rivista di rugby, «Tackle». Il resto della storia è noto.

I Pumas di oggi piacerebbero da matti al Che. Al giornalista e al soldato. Una squadra rivoluzionaria e socialista, autogestita e incazzereccia. Guerrigliera, nomade, romantica e tignosa. Venerdì gli argentini hanno ribaltato il mondiale di rugby, battendo allo Stade de France, nella giornata di una festa prenotata da anni, i padroni di casa. Li hanno pressati, sorpresi, asfissiati con la «garra», con il furore e la voglia di vincere di una mischia ormai leggendaria per la sua spinta e le sue carognate.

A la guerre comme a la guerre, sempre e comunque. «Gli argentini contro la Francia hanno giocato con il cuore, la testa e le palle - sospira il ct azzurro Pierre Berbizier ripensando alla vittoria dei gauchos e alla frana dell'Italia controgli All Blacks - Noi invece avevamo la testa in aria, un po' di cuore, ma abbiamo giocato senza palle». Brutale ma chiaro. Forse per questo i Pumas, che hanno vinto 5 degli ultimi 6 match con la Francia, che quest'anno hanno battuto persino gli inglesi a casa loro (prima squadra non compresa fra le 8 grandi a riuscirci), e che sono ormai saliti al 5° posto della classifica per nazioni, da anni si vedono sbattere in faccia la porta del TriNations. Troppo cattivi, troppo bravi. Meglio non aiutarli a migliorare ancora. Anche Berbizier però difficilmente accetterebbe il sistema di gestione interna della squadra. «Da sei anni ci siamo autoproclamati leaders del gruppo - dice Mario Ledesma, tallonatore -. Siamo in sei, Agustin (Pichot), Nacho (Fernandez Lobbe), Chalo (Gonzalo Longo), Martin (Durand) e Felipe (Contepomi). I Big 6. Non perché il nostro ego sia sovradimensionato, ma perché ci siamo detti che dovevamo essere noi a fare un passo avanti, per proteggere i giovani. Preferiamo essere noi a ricevere le multe o a essere espulsi». Sistema «molto socialista», come sostiene Contepomi, stella della selezione irlandese del Leinster, uno stipendio da circa 200 mila euro all'anno.

La necessità di un comitato nasce dalla doppia personalità del rugby argentino: sport nato ricco, borghese quanto il calcio era proletario, importato a Buenos Aires dagli inglesi alla fine del XIX secolo. In patria la situazione non è cambiata molto, e il dilettantismo viene difeso dai puristi, mentre con lo svilupparsi del professionismo ovale in Europa si è formata una legione di emigranti di lusso, ben pagata dai grandi club inglesi e francesi, che ama alla morte la maglia biancoceleste ma non sopporta le logiche della UAR, la Federazione argentina. «Il denaro non deve entrare nel rugby - sostiene Rodolfo O'Reilly, ex-allenatore della nazionale - perché perderemmo i nostri valori fondamentali: il sacrificio per gli altri, la solidarietà, l'educazione». I professionisti amano la nazionale e sono solidali, ma non vogliono rinunciare ai conti in banca. Nel giugno 2006 i rivoluzionari del placcaggio proclamarono addirittura uno sciopero: 10 giorni senza allenamenti, alla vigilia di due importanti test match con il Galles. Poi scesero in campo e vinsero entrambe le partite. A novembre un'altra sfida. Indignati con i federales, che dopo la storica vittoria di Twickenham contro gli inglesi non erano scesi a felicitarsi con loro negli spogliatoi, hanno aspettato il banchetto ufficiale per vendicarsi. Non appena il presidente della UAR Alejandro Risler si è alzato per pronunciare il discorso ufficiale davanti agli inglesi in smoking, la squadra si è alzata dal tavolo, ed è uscita dalla sala. «Dovevamo andare a far pipì», è stata la scusa ufficiale.

Orgogliosi, duri. Ma patrioti. Nella tournée europea dello scorso anno pagarono di tasca propria l'albergo, indignati dalla sistemazione indecente, a sentir loro, prevista dalla Federazione. Una squadra che è abituata a riunirsi il lunedì e a giocare - spesso a vincere - il sabato. Pochi allenamenti comuni, molti viaggi, molti cambi di domicilio. Ma uno spogliatoio di granito, fatto di combattenti. Il leader storico del gruppo è Agustin Pichot, 33 anni, mediano di mischia, pessimo carattere. Giocate da mago e furbate da scugnizzo, l'anno prossimo sarà al Racing di Parigi assieme ai nostri Festuccia e Lo Cicero, forse insieme a Berbizier. «Agustin si crede Napoleone», dicono di lui i suoi (ormai ex) colleghi dello Stade Francais. Ma generoso al punto di assistere per 3 giorni il suo compagno Martin Gaitan, colpito da un problema cardiaco in Belgio, mentre il resto della squadra si spostava in Francia. Le altre star sono Contepomi, mediano di mischia, il cui fratello ha giocato l'anno scorso a Rovigo, il tallonatore Ledesma e soprattutto Juan Martin Hernandez, 25 anni, forse il migliore estremo del mondo, conteso allo Stade Francaise da tutti i migliori club inglesi. «El Mago» che è nipote di Patricio Hernandez, centrocampista del Toro anni '80, preferisce giocare apertura. E così è stato contro la Francia venerdì scorso. Coach Loffreda lo ha accontentato. Potere al popolo, nella squadra dei nipotini guerriglieri del Che.

fonte: www.lastampa.it/sport/


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